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La crisi dei commerci mondiali tra carenza di merci in tutto il mondo e aumento dei prezzi

Da alcuni mesi diversi beni di consumo e generi di prima necessità scarseggiano in tutto il mondo: dalle automobili ai microchip per i prodotti elettronici, dalla carta su cui stampare i libri ai tacchini, un po’ ovunque mancano prodotti importanti e molto usati, ci sono ritardi nelle consegne oppure, a causa della scarsità, si è verificato un aumento dei prezzi. Queste carenze potrebbero durare ancora a lungo e potrebbero mettere in crisi i consumi di Natale, uno dei periodi più importanti per moltissimi settori commerciali e produttivi.

La preoccupazione che la crisi possa «rovinare il Natale», come ha scritto il sito Wirecutter, è molto sentita soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sembra meno accentuata in paesi come l’Italia, dove almeno per ora non si rischia tanto di rimanere senza prodotti; anche qui, tuttavia, sono probabili ritardi nelle consegne e un aumento dei prezzi.

Non è ancora nemmeno chiaro quando le cose miglioreranno: si parla almeno della metà del 2022, mentre altre stime citano il 2023. In ogni caso, nei prossimi mesi la scarsità di beni, i ritardi nelle consegne e gli aumenti dei prezzi potrebbero peggiorare ulteriormente, prima di tornare alla normalità.

Economisti ed esperti definiscono questo fenomeno di scarsità di molti beni e prodotti come crisi della “supply chain” (letteralmente “catena dell’approvvigionamento”), cioè del complesso e interconnesso sistema di trasporti e rifornimenti su cui si basano il commercio e l’economia mondiali e che, di fatto, è l’elemento centrale della globalizzazione.

Questo sistema, che è stato costruito negli ultimi decenni e che finora si era sempre dimostrato straordinariamente efficiente, è entrato in grave affanno in tutte le sue parti a seguito della pandemia da coronavirus: la produzione non riesce a stare dietro alla domanda, il sistema globale dei trasporti non riesce a stare dietro alla produzione, e mancano la manodopera e le fonti di energia necessarie per molti processi fondamentali.

Come ha scritto il ricercatore Stavros Karamperidis su The Conversation, nei suoi aspetti essenziali la crisi della supply chain è «un classico squilibrio tra domanda e offerta»: i consumatori vogliono comprare beni e prodotti ma il sistema non è in grado di fornirli a ritmi sufficienti.

In realtà, questa crisi è composta da numerose crisi messe assieme, che riguardano la produzione, i trasporti, le materie prime, la manodopera, le politiche commerciali delle aziende e le decisioni economiche dei governi; e il sistema è a tal punto interconnesso e complicato che anche per gli economisti è difficile raccapezzarsi e dare il giusto peso a tutte le cause: come ha scritto Tyler Cowen su Bloomberg, «alcuni fondamentali centri nevralgici dell’economia mondiale sono stati colpiti da un misto di COVID e sfortuna».

La pandemia

È sicuro che uno dei fattori scatenanti della crisi sia stato la pandemia da coronavirus. All’inizio della pandemia, oltre un anno e mezzo fa, diversi paesi produttori ed esportatori di beni, come la Cina e il Vietnam, ma anche la Germania, furono colpiti dalla prima ondata di contagi. Molte fabbriche furono costrette a interrompere la produzione o a rallentarla sensibilmente, a causa dei contagi o delle misure introdotte dai governi per limitare il diffondersi del COVID-19. In generale, nel primo periodo della pandemia si ritenne che una parte consistente dell’industria manifatturiera sarebbe crollata.

Come ha scritto il New York Times, anche le imprese che si occupano dei trasporti, prevedendo un crollo dei commerci mondiali, ridussero notevolmente le loro spedizioni, tagliarono migliaia di viaggi e in alcuni casi ne approfittarono per ristrutturare le proprie navi portacontainer, prevedendo di tenerle ferme per molti mesi.

Le previsioni erano però sbagliate. Alcuni servizi come, per esempio, la ristorazione e il turismo effettivamente crollarono, ma la domanda di beni da parte dei consumatori non si ridusse: piuttosto, si modificò notevolmente. Costrette a casa dalle restrizioni provocate dalla pandemia, le persone cominciarono a comprare computer, stampanti e monitor per poter lavorare da casa, mobili per organizzare uffici domestici, TV, console e videogiochi per passare il tempo, elettrodomestici e accessori per cucinare in casa, tra le altre cose.

L’aumento della domanda fu forte e improvviso, e mise in crisi tutta una serie di settori manufatturieri la cui programmazione della produzione è abitualmente molto prevedibile e scandita da ritmi regolari, che si trovarono spiazzati.

La crisi della produzione

Nei mesi successivi alla prima ondata della pandemia, man mano che le economie mondiali riprendevano l’attività, si è verificato un ulteriore aumento della domanda di prodotti e beni di vario tipo da parte dei consumatori.

L’aumento è stato generato in parte dalle riaperture e in parte dal fatto che la disponibilità economica di molti era aumentata durante il periodo del lockdown, a causa dei benefit generosi forniti da molti governi e in alcuni casi delle spese minori da affrontare. Secondo una stima fatta dall’agenzia di rating Moody’s nella primavera del 2021, in tutto il mondo sono stati accumulati durante la pandemia 5.400 miliardi di dollari di risparmi in eccesso rispetto alla quota degli anni precedenti.

Il denaro risparmiato è stato in buona parte speso, o sarà speso nei prossimi mesi, provocando un aumento della domanda a cui il sistema produttivo mondiale fatica a far fronte.

Per soddisfare la domanda crescente, molte fabbriche hanno tentato di aumentare la produzione, ma il problema è che il sistema mondiale della produzione, dei trasporti e dei commerci ha poca flessibilità e scarsissimi margini d’errore.

Per assemblare un computer portatile in Cina, per esempio, è necessario fare arrivare microchip da Taiwan, uno schermo LED dalla Corea del Sud, componenti chimici dall’Europa e parti elettroniche da varie altre regioni del mondo. Questo modello produttivo è basato su una programmazione dettagliata e di lungo periodo, ed è poco flessibile: se soltanto uno dei fornitori è in ritardo, tutta la produzione è costretta a fermarsi.

Per questo quando, dopo un lungo periodo di chiusure e rallentamenti, le fabbriche hanno tentato di aumentare la produzione tutte assieme, la catena lunga delle forniture si è interrotta o rallentata, e il sistema si è ingolfato.

La crisi dei trasporti

Uno degli elementi fondamentali di questo ingolfamento è stata la crisi dei trasporti: il sistema produttivo mondiale si basa sullo spostamento continuo dei componenti e delle merci da una parte all’altra del mondo, ma questi spostamenti sono diventati sempre più difficili, lunghi e costosi. Anzitutto perché mancano i container, cioè le grandi scatole di metallo trasportate dalle navi cargo, su cui viaggia più dell’80 per cento delle merci mondiali.

Il problema principale dei container è che all’inizio della pandemia sono andati a finire nei posti sbagliati: dalla Cina ne sono partiti a migliaia per portare mascherine e dispositivi sanitari in regioni marginali per i commerci mondiali, come per esempio l’Africa orientale o l’Asia meridionale, e siccome i paesi che si trovano in queste regioni non sono paesi esportatori, rimandare indietro i container vuoti non conveniva. Quando però la domanda di beni nei paesi ricchi ha ricominciato ad aumentare, i grandi paesi esportatori come la Cina si sono trovati senza container.

Inoltre, da mesi molti grandi porti di tutto il mondo sono bloccati o lavorano a rilento, per varie ragioni. In alcuni casi, come per esempio è successo in Cina, i porti sono stati chiusi per lunghi periodi a causa di contagi e focolai; inoltre, le operazioni spesso procedono a rilento per via dei controlli resi necessari dall’emergenza sanitaria.

In altre regioni del mondo, invece, le operazioni nei porti sono bloccate o rallentate perché mancano i lavoratori. Questo è un problema molto pressante soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove mancano decine di migliaia di persone per caricare e scaricare i container (e dunque le merci) e per le varie operazioni portuali. I lavoratori mancano sia a causa delle restrizioni, delle quarantene e dei lockdown sia perché le condizioni del mercato del lavoro sono cambiate, ed è diventato sempre più difficile trovare persone disposte a fare mestieri poco qualificati.

Il risultato è che in porti come quelli di Los Angeles e Oakland, tra i più importanti degli Stati Uniti, le navi cargo in arrivo devono aspettare per giorni prima che i loro container siano scaricati, e poi ricaricati per partire verso nuove destinazioni. Nei due porti, come ha scritto Business Insider, si è verificato un aumento del 30 per cento della quantità delle merci movimentate e al tempo stesso una riduzione del 28 per cento dei lavoratori disponibili.

La conseguenza di questa crisi è stata un aumento eccezionale dei costi di trasporto: prima della pandemia, mandare un container da Shanghai a Los Angeles poteva costare all’incirca 2.000 dollari; all’inizio del 2021 ne costava 25 mila, con un enorme aumento dei profitti per l’industria dei trasporti su container, che nel complesso sono passati da 15 miliardi di dollari nel 2020 a una previsione di 100 miliardi quest’anno.

La crisi non riguarda soltanto i trasporti marittimi. Come si è visto con la crisi del carburante nel Regno Unito, in molti paesi sviluppati mancano anche gli autotrasportatori, che sono un elemento fondamentale della “supply chain” perché portano le merci dai container ai magazzini, e dai magazzini ai luoghi di vendita al dettaglio. Nel Regno Unito mancano 100 mila autotrasportatori, in Germania 80 mila, e in tutta l’Unione Europea si stima che ne manchino 400 mila.

Questo ha portato, ovviamente, a ulteriori rallentamenti e aumenti dei costi.

(Fonte: Il Post)

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