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L’economia italiana va molto meglio del previsto: è solo il «rimbalzo» del covid o c’è una crescita reale?

L’Italia, contrariamente ai più pessimistici pronostici di inizio anno, va molto meglio di come chiunque pensasse. La nostra economia da un po’ di tempo sorprende, in positivo. Possibile?

Le attese e le performance dell’Italia: cosa stupisce

Cerchiamo di stare ai dati: è da almeno un paio d’anni che la performance del Paese sta smentendo in meglio le attese di tutti i previsori. Anche di quelli ufficiali. Sia dei governi che si sono succeduti, sia degli organismi internazionali. Ad aprile scorso il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale vedeva in Italia una crescita del 2,3% per quest’anno, sforbiciata dal 3,8% che sempre l’Fmi immaginava nel gennaio precedente. Era normale allora essere più cauti: in aprile era appena iniziata una guerra in Europa, destinata a sconvolgere il mercato delle materie prime e a generare ripetuti choc inflazionistici.

L’Italia crescerà più della Cina nel 2022

Risultato? Cresceremo quest’anno esattamente come l’Fmi aveva pronosticato in gennaio, del 3,7% o del 3,8%. Per la prima volta da una quarantina di anni quanto o più della Cina.. Lo faremo anche se nel frattempo stiamo vivendo una crisi energetica e potremmo essere arrivati sull’orlo di una recessione, assieme all’intera area euro. Lo faremo anche se eravamo uno dei Paesi più dipendenti dal gas russo. Si può dunque pensare che, senza guerra in Ucraina e esplosione dei prezzi del gas, l’Italia sarebbe cresciuta probabilmente di circa il 5% quest’anno: non sarebbe stato affatto male, dopo il rimbalzo del 6,7% l’anno scorso.

Smentite anche le previsioni dei governi

Del resto l’Fmi aveva già sbagliato le previsioni dell’Italia per difetto anche l’anno prima (non di poco) e la stessa Commissione europea in aprile scorso vedeva il Paese crescere di appena il 2,4% quest’anno e anche sul 2021 si era tenuta nettamente troppo bassa. Non ci capita spesso di smentire in meglio i previsori, ma ancora meno ci capita di smentire in meglio i nostri governi: quello di Mario Draghi in aprile del 2021 puntava su una crescita del 4,5% sull’anno (fu, appunto, del 6,7%); quindi in aprile scorso puntava su una crescita del 3,1% per il 2022 (ma sarà, appunto, almeno del 3,7%).

Che cosa succede all’Italia?

Che ci succede? Di solito i governi erano troppo ottimistici e anche gli osservatori internazionali passavano per vari tagli successivi di stime. Si tratta dunque di capire se è stata solo fortuna, se è solo l’effetto irripetibile delle riaperture dopo il biennio di lockdown e proibizioni da Covid. Oppure se invece c’è anche della sostanza nelle sorprese che l’Italia sta indubbiamente dando. Dalla risposta dipende il futuro, in bilico fra un ritorno al grigiore della stagnazione degli ultimi vent’anni e una traiettoria più vitale. È dunque solo un caso, per dire, che nell’ultimo trimestre l’Italia sia cresciuta (+0,5%) più di Germania, Francia o Spagna? Qualcosa di sostanziale ci dev’essere. Ecco le variazioni dell’export in euro a valore costante dalla fine del 2019 alla fine del 2022, secondo la banca dati della Commissione europea:

– Germania +0,9%
– Francia +2,5%
– Spagna +7,3%
– ITALIA +8,8%

La forza dell’industria

In parte è come se le imprese del “made in Italy” uscite dalla grande recessione, alla crisi dell’euro e alla crisi bancaria – una stagione in cui il Paese ha perso fino a un quarto della sua produzione industriale – fossero le sopravvissute di una fortissima selezione darwiniana. Sembra un po’ un caso tipico di resistenza delle più forti, delle meglio gestite, delle più capaci di adattarsi. Le imprese industriali italiane girano ancora all’80% della loro capacità (molto sopra le loro medie dal 2008) e hanno libri di ordini pieni per un numero di mesi sempre più lungo, ormai più di mezzo anno. Possibile essere diventati improvvisamente tanto virtuosi? In effetti ultimamente abbiamo fatto cose che gonfierebbero il petto d’orgoglio anche di un tipo come l’ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (ma non gonfiano il nostro di petti). Parlo della moderazione salariale: le retribuzioni crescono così poco, da così tanto tempo, che stiamo recuperando un po’ della competitività di costo che avevamo perso sui nostri prodotti, mentre molti faticano ad arrivare a fine mese. Sylvain Broyer di S&P, l’agenzia di rating, stima che il ritardo di dieci anni fa sulla Germania nei costi del lavoro per unità di prodotto – una misura di quanto i salari sono proporzionali alla produttività – si sia oggi dimezzato. Non solo: il capitale delle imprese è più solido, avendo esse ridotto il loro debito di oltre dieci punti (in proporzione al prodotto lordo) negli ultimi dieci anni. Ora le imprese italiane sono fra le meno indebitate nel mondo avanzato e il Covid ha portato loro – assieme a tante sventure – un dono inatteso: il governo le ha indennizzate a debito per l’intero fatturato perduto, ma nel frattempo ha pagato la loro forza lavoro per intero (sempre a debito). Quindi i loro margini molto spesso sono cresciuti.

Il tesoretto nelle casse delle aziende

Nel 2022 poi lo Stato ha compensato in parte le imprese anche per i maggiori costi della crisi del gas, mentre quelle trasferivano in pieno gli aumenti delle bollette sulla clientela. Non a caso i depositi liquidi delle aziende sono cresciuti di oltre 100 miliardi di euro negli ultimi tempi: tante aziende rigurgitano di cash, oltre 420 miliardi di euro secondo i dati della Banca d’Italia. Nel frattempo, per la prima volta da oltre un decennio, ora il credito bancario è disponibile per chi vuole investire. I flussi dei prestiti sono ripresi in parte, anche qui, grazie alle garanzie pubbliche iniziate con la pandemia. Ma il risanamento delle banche è un altro progresso reale del Paese in questi ultimissimi anni: i crediti in sofferenza delle imprese valevano 145 miliardi cinque anni fa, valgono appena venti miliardi oggi.

La corsa dell’export

Questo miglioramento e gli incentivi all’investimento tecnologico di Industria/Transizione 4.0 hanno dunque aiutato migliaia di produttori italiani a diventare più forti e più efficienti nelle loro nicchie di mercato globale. Di qui la performance dell’export. Favorita e sostenuta dal fatto che tante imprese non esportatrici sono tornate a beneficiare degli investimenti pubblici: sempre Broyer di S&P mostra che in Italia per la prima volta da anni si sono risvegliati, in parte grazie anche al Recovery, passando da 2% del prodotto lordo nel 2018 a oltre il 3% attuale (in proporzione più di Germania e Spagna).

Il made in Italy e il turismo

Poi, naturalmente, c’è stata una fortuna sfacciata ma non immeritata, dopo tanti anni durissimi. Uno dei suoi aspetti è che è andata in crisi la Cina – mercato d’elezione della Germania – ma non si sono mai fermati gli Stati Uniti, che per il “made in Italy” sono di gran lunga più importanti. Anzi, il rafforzamento del dollaro ha sostenuto il nostro export. Il potere del biglietto verde e la clemenza dell’autunno spiegano anche perché l’annata turistica abbia riportato l’Italia ai fasti dei fatturati del 2019 per hotel, ristoranti o guide museali. Ma in fondo questa è la parte del “mini-boom” italiano che dovrebbe indurci a tenere a bada gli entusiasmi: per ora in gran parte del “miracolino” deriva dall’effetto di riapertura dell’economia, dopo le restrizioni da Covid durate a lungo anche nel 2021.

Le cose che non vanno

Stiamo ancora rimbalzando, poco più. L’export e le imprese manifatturiere sono vitali sì, ma rappresentano una parte troppo piccola dell’economia per poter trainare il tutto. Un’amministrazione costosa e inefficiente, un livello troppo basso di ricerca e sviluppo, imprese in media di dimensioni troppo ridotte, una scuola inadeguata, il debito pubblico, una demografia declinante – per non parlare della qualità media della classe politica – restano potenti nubi che si addensano sul nostro cielo. Minacciano ancora stagnazione. Ma ciò che abbiamo dimostrato in questo biennio, smentendo i previsori, è che non siamo irriformabili. Possiamo sorprendere quando non ce lo aspettiamo più nemmeno noi. Ripartiamo da qui.

(Fonte: Corriere Economia)

 

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