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Transizione green, perché è ora di occuparcene tutti

Quanti di voi vedono o sentono il cambiamento climatico? Lo avvertite nelle vostre vite? Queste sono domande che ho recentemente posto a un gruppo di liceali milanesi che mi avevano invitato a scuola nel periodo di cogestione. Il numero di mani che si sono sollevate per rispondere mi ha molto impressionato. Certo, non hanno usato, come si fa nella scienza, metodi statistici che permettano di capire se uno specifico evento è attribuibile o meno al cambiamento climatico. Ma ognuno di loro ha velocemente cercato nella propria esperienza e ha trovato quel giaccone pesante che non serve quasi più, o quelle giornate di giugno in cui non si respira dal caldo, figurati seguire una lezione. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema, venti anni fa, dovevo fare lunghi preamboli fatti di grafici, statistiche e proiezioni modellistiche per convincere chi era di fronte a me che stavo raccontando di qualcosa di reale e degno della loro attenzione. Semplicemente perché per lo più non avevamo ancora visto il cambiamento repentino che gli ultimi anni hanno portato. Oggi, non solo questo cambiamento è un fatto con cui tutti conviviamo, ma anche una sedicenne si preoccupa delle conseguenze che questi cambiamenti potrebbero comportare («Lo sa prof. che l’areale della malaria potrebbe allargarsi a causa del cambiamento climatico?», mi sono sentita dire). Questo lo vediamo anche nei trend emergenti dagli innumerevoli sondaggi che da decenni sono condotti in quasi ogni parte del mondo: la maggior parte delle persone è convinta che stia succedendo, che noi ne siamo la causa ed è preoccupata dei rischi che questo comporta.


 

I passi avanti degli ultimi vent’anni

Penserete che sto esagerando, perché un altro dato che emerge chiaramente da studi scientifici è che per lo più crediamo che gli altri non siano preoccupati quanto lo siamo noi (tecnicamente, credenze di secondo ordine). Sebbene spesso ci concentriamo sulla inazione davanti a questo problema globale è importante partire dagli incredibili passi avanti fatti negli ultimi vent’anni: le politiche, gli investimenti e la ricerca hanno reso le soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra sempre più economiche. Molte delle strategie essenziali per produrre elettricità con fonti rinnovabili, ridurre il consumo energetico a parità di performance, utilizzare l’elettricità pulita al posto di quella prodotta con fonti fossili per muoversi e scaldarsi, in altre parole, tutte quelle misure necessarie per transitare verso un futuro a zero emissioni di gas serra sono oggi disponibili e a costi sempre più contenuti. E le potenziali conseguenze positive in molteplici ambiti della nostra vita, ambientali e non, che queste strategie potrebbero comportare sono sempre più evidenti. Eppure, la transizione ecologica è spesso descritta come complessa e costosa, nonostante non lo sia più: le complessità sono dunque non più tanto tecnologiche o economiche, ma psicologiche, sociali e politiche. In primis, è importante capire il ruolo centrale dell’azione individuale nel guidare questo cambiamento sistemico. Sebbene gli sforzi individuali – come la riduzione dell’impronta di carbonio personale attraverso cambiamenti nello stile di vita – possano avere un ruolo, è la partecipazione civile democratica in tutte le sua varie espressioni ad essere lo strumento più potente che abbiamo per ottenere il cambiamento necessario. Questo sarà possibile solo tramite politiche climatiche ambiziose promosse e sostenute da leader impegnati in un’azione coraggiosa sui cambiamenti climatici. La presenza dei temi climatici nelle piattaforme politiche e sociali rimane spesso marginale o al massimo superficiale.


 

Le conseguenze per la politica

Forse anche per il fatto che la convinzione che gli «altri» non si preoccupino di questo problema è condivisa anche dai politici. Invece la presentazione di piani di transizione industriale che abbiano al centro occupazione, innovazione e redistribuzione dovrebbe essere centrale in tutte le piattaforme politiche. Anche perché la transizione è ormai in atto in tutto il mondo e fare finta di niente non porterà nessun beneficio. Paradossalmente, anche se i temi ambientali sono stati fino a oggi molto minoritari nelle campagne politiche, è emersa una narrativa attorno all’idea di «green backlas», ossia il prezzo politico che pagano partiti che promuovono policy ed investimenti verdi. Ad oggi, quello che sappiamo da studi in diversi Paesi europei e negli Stati Uniti suggerisce che i partiti che sostengono politiche e investimenti ambientali, quando «pagano» un prezzo politico, lo pagano in ambito molto locale (ad esempio entro il raggio di due chilometri da una turbina eolica) e, in generale, senza conseguenze in fatto di possibili sconfitte elettorali. Questo non toglie che se i benefici di queste politiche interessano tutti e sono più elevati dei costi, questi ultimi tendono a ricadere sproporzionatamente su alcune parti della società che devono poter partecipare al disegno della transizione e a quello della inevitabile compensazione. Sono stati fatti tanti passi avanti per allineare interessi diversi e coordinare le azioni necessarie tra governi, industrie e comunità. L’Europa e gli Stati Uniti stanno sperimentando strumenti di policy ambiziosi che vanno ora implementati nel modo che porti il maggior benessere, tramite un dialogo tra le diverse parti sociali. Questo è il momento in cui il supporto di tutti deve spingere la politica a guardare oltre alla miopia del giorno per giorno.

 

(Fonte: Corriere Economia)

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