Cipolletta: «Nei fondi 14 miliardi per aiutare le aziende, sgravi fiscali per chi investe sulle non quotate»
Ci sono «14 miliardi di euro disponibili nei fondi, in Italia, pronti per essere investiti nell’economia reale — dice Innocenzo Cipolletta —. Bisogna fare in modo che la liquidità privata converga sulle imprese non quotate, per lo sviluppo del Paese. È un argomento da affrontare con decisione nella riforma in atto del Testo unico della finanza». Cipolletta, economista, è presidente dell’Aifi, l’Associazione italiana dei fondi di private equity, private debt e venture capital che a loro volta sono azionisti e finanziatori di 3 mila società, con oltre 200 miliardi di ricavi e 800 mila dipendenti. Il «tesoretto» per le piccole e medie imprese al quale si riferisce sono i commitment dei fondi presenti in Italia a fine 2023: gli impegni assunti dai sottoscrittori.
La riforma del Tuf
Con un documento del consiglio direttivo del 22 maggio, l’Aifi ha chiesto «maggiore attenzione al mercato del private capital nel processo di riforma del Tuf». Sul Tuf è al lavoro il comitato degli esperti nominato dal ministero dell’Economia. Il testo dovrebbe però essere pronto entro la fine di quest’anno. «Apprezziamo l’obiettivo di semplificazione che si pone la riforma, ma è pensata solo per le imprese quotate sui mercati, mentre il tessuto produttivo italiano è composto in gran parte da aziende non quotate», dice l’Aifi.
Tre strade
Cipolletta ha tre strade in mente per le non quotate: uno, «agevolare con vantaggi fiscali» l’investimento nelle piccole e medie imprese tramite la sottoscrizione, da parte di casse di previdenza e assicurazioni, di fondi di private capital. Due, agevolare la raccolta di capitali tramite il private banking con prodotti che si adattino a questo tipo di clientela. Tre: far nascere «un fondo di fondi soltanto pubblico, che investa in fondi di private capital che a loro volta raccolgano altri capitali e li facciano confluire nelle aziende».
Da anni si parla di convogliare investimenti sulle piccole imprese private non quotate, con scarsi risultati. Qual è la novità ora?
«Il Tuf è un testo nato con Draghi negli anni ‘90, serviva per la governance delle quotate. In questi 30 anni il mercato è molto cambiato: prima, per finanziarsi, le aziende familiari avevano al massimo il credito bancario, le quotate la Borsa. Poi sono arrivati i minibond, è cresciuto il private equity: le aziende hanno avuto alternative sul mercato dei capitali. Se si riforma il Tuf, non ci si può limitare al mercato delle quotate. Gli operatori di finanza alternativa ormai hanno un ruolo rilevante, che soddisfa le esigenze delle imprese. Le aziende possono avere un soggetto che stia per un periodo abbastanza lungo nel capitale e poi, raggiunto l’obiettivo, esca. È ciò che fanno i fondi di private equity. È opportuno parlare anche del private capital accanto al mercato della Borsa».
Quindi su che cosa dovrebbe intervenire il nuovo Tuf?
«Auspico che, innanzitutto, semplifichi l’operatività delle società di gestione del risparmio. Hanno vincoli da Banca d’Italia e Consob che le assimilano più alle banche che a un operatore industriale, per esempio i comitati antiriciclaggio. Servono meno condizioni. Per portare risorse alle imprese italiane è poi importante favorire la canalizzazione via private banking. L’Eltif, ad esempio, è uno strumento adatto, anche perché può essere lanciato con tagli piccoli che favoriscono la diversificazione del portafoglio».
Resta il capitolo delle casse di previdenza e assicurazioni: da anni l’Aifi preme perché investano di più nei fondi di private capital. Proposte?
«Bisogna seguire la Francia: Ha creato fondi di fondi pubblici che favoriscono l’attrazione del capitale privato. Per le assicurazioni ha trovato soluzioni perché sia assorbito meno capitale, a riserva, se gli enti investono in fondi e sgr destinati alle imprese nazionali. In Italia va ridotto lo svantaggio fiscale, deve scendere la tassazione sulle plusvalenze per casse di previdenza e assicurazioni che investono nelle aziende, direttamente o attraverso i fondi».
In Italia si studia un fondo di fondi per le piccole e medie imprese, a capitale misto pubblico-privato, attraverso il Patrimonio destinato di Cassa depositi e prestiti. Che ne pensa?
«Così concepito, non aggiunge molto al mercato. Il fondo di fondi andrebbe dotato tutto di capitale pubblico: poi gli investitori privati si affiancheranno di volta in volta sugli investimenti in fondi. Se si mette a fare concorrenza ai fondi riduce la capacità delle sgr di attrarre capitali privati. Perciò più che un’alleanza societaria pubblico-privata serve una partnership di scopo. Per essere uno strumento per la crescita, poi, questo fondo di fondi non va indirizzato solo alle aziende che intendono quotarsi, ma a tutte e deve agire in modo indiretto, tramite intermediari di mercato. Noi siamo pronti, c’è molto capitale da parte delle imprese e operatori in grado d’intercettarla».
Uno strumento per investire nelle non quotate già c’è: i Pir alternativi. Ma non decollano. Hanno un senso?
«Sì, ma abbiamo poche sgr per offrirli e spesso di dimensioni troppo piccole. Il Pir alternativo è uno degli strumenti, ma non può essere una soluzione».
Il governo sta preparando anche la riforma fiscale. Pensa che andrebbe disegnata insieme con le regole per il mercato dei capitali?
«Sì, la riforma fiscale va disegnata di conseguenza alla riforma del Tuf. La tassazione sugli enti di previdenza è penalizzante, si basa sul valore determinato ogni anno dai titoli in loro possesso: è un valore putativo, che riduce la capacità d’investimento».
(Fonte: Corriere Economia)
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