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Imprese in attesa di una politica industriale. Nuova e più difficile

La promessa del ministro Adolfo Urso c’è ed entro giugno dunque dovrebbero essere messi nero su bianco i decreti attuativi di Transizione 5.0. Almeno così Urso si è speso incontrando il neo-presidente della Confindustria, Emanuele Orsini martedì scorso. Ciò nonostante le preoccupazioni degli imprenditori delle macchine utensili restano elevate: i tempi sono strettissimi visto che l’efficacia del provvedimento ha comunque una data-capestro di fine vita, il 31 dicembre 2025. A quella data le nuove macchine dovranno essere consegnate, installate e già interconnesse. C’è dunque uno spazio giudicato ristretto degli operatori per poter ricevere gli ordini, organizzare la produzione e consegnare le nuove macchine.
A motivare la preoccupazione di cui sopra c’è il particolare posizionamento di mercato dell’offerta italiana che è competitiva nella misura in cui riesce a customizzare il prodotto e conservare quindi un rapporto speciale con il cliente. La forza del made in Italy di beni strumentali e robot sta proprio qui e risulterebbe singolare che il governo che sulla materia ha partorito un’apposita legge non tenesse poi in debito conto gli interessi dei produttori italiani. Se mancassero i tempi per customizzare ad avvantaggiarsene sarebbero i produttori stranieri come giapponesi, cinesi e coreani (e gli importatori con magazzini pieni) che offrono sul mercato un prodotto di serie che potrebbe essere disponibile alla consegna in tempi più rapidi.
 

La domanda

Le preoccupazioni di cui sopra sono anche motivate da una domanda stagnante sul mercato interno (l’ultimo trimestre ha fatto segnare -19,4% sullo stesso trimestre del ’23 e l’indice Ucimu è fermo a quota 55 sotto la media di 100) causata proprio dalle incertezze regolatorie, che inducono acquirenti e produttori ad aspettare e a rinviare le scadenze. Del resto il vantaggio fiscale di Transizione 5.0 — un credito d’imposta al 45% — è cosi rilevante rispetto al 4.0 che è difficile dar torto agli attendisti. I tempi rischiano di essere lunghi anche perché il passaggio culturale dal 4.0 al 5.0 è significativo, mentre la vecchia misura era di carattere più ingegneristico e si concretizzava con la sostituzione di macchine digitali il nuovo provvedimento di politica industriale punta al risparmio energetico totale e quindi necessita di un monitoraggio allargato. Spiega Marco Taisch: «Ci sono elementi di continuità ma anche di discontinuità tra 4.0 e 5.0. A valle c’è un consumatore evoluto, maturo, molto attento ai dettagli della sostenibilità e questo consumatore non va solo coinvolto emotivamente ma formato». Per essere in grado di sfruttare al meglio Transizione 5.0 come il miglior abilitatore di risparmio energetico.


 

L’attesa

Taisch racconta anche come il vecchio provvedimento avesse goduto ai tempi del governo Renzi di una maggiore attenzione politica e visibilità mediatica. Oggi i temi dell’agenda dell’amministrazione e dei partiti alla vigilia delle elezioni sono altri. «I tassi alti o le polemiche sul superbonus sono più presenti nel discorso pubblico e distolgono l’attenzione dalla fabbrica e dalla tecnologia». Come dimenticare poi un contesto geopolitico molto preoccupante e come dimenticare anche che quel mondo collaborativo che la globalizzazione aveva creato e allevato oggi non c’è più, almeno nelle stesse modalità e con la stessa intensità. Questo complesso di incertezze fa sì che l’imprenditore resti come alla finestra e sia portato a guardare con maggiore scetticismo agli investimenti: ne deriva una politica industriale della digitalizzazione e della sostenibilità a strappi che sta a monte dei ritardi e delle incomprensioni di questi mesi. «Confido però nella vitalità del sistema, una volta emanati i decreti attuativi dovremmo incrociare una forte propensione a investire e un’ottima risposta di mercato».


 

Filiere

Conferma Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia Area Centro, terra di filiere altamente tecnologiche competitive, che sono molte le aziende disposte a investire e a recuperare il tempo perduto. Del resto ci sono dei percorsi di innovazione che si presentano pressoché obbligatori e che portano a fare i conti con l’intelligenza artificiale. «Tutto sommato abbiamo sfruttato poco Industria 4.0 perché è arrivata la crisi energetica che ci ha prosciugato molte risorse. In questa nuova fase la stessa filosofia del provvedimento che lega digitalizzazione e sostenibilità rappresenta una spinta culturale profonda». Sullo sfondo ci sono sempre mercati inquieti e consumatori attenti al mutamento, guai a non dare loro nuove soluzioni. «Quanto ai ritardi nella stesura del provvedimento e dei decreti attuativi penso che le vicende legate al Superbonus abbiano sicuramente contato — aggiunge Caiumi —. È stato un errore concentrare troppe risorse e in qualche maniera ne pagheremo le conseguenze con un possibile appesantimento dei controlli burocratici». Confida però che la nuova presidenza di Confindustria sappia monitorare e presidiare anche la fase successiva, quella legata all’attuazione.


 

Accelerare

Ma che tipo di riflessi, al di là dei vantaggi immediati, Transizione 5.0 avrà sulla cultura industriale dell’offerta italiana di macchine utensili? Per Taisch può spingere a rivedere un modello di business «troppo meccano-centrico» presente tra i nostri imprenditori del settore. «Il futuro è connessione, dati, erogazione del servizio. So che i nostri industriali non amano la servitizzazione anche perché la intendono come noleggio delle macchine, ma rispondo che sono molte altre le forme per produrre ulteriore valore aggiunto». Altrimenti si corre il rischio che avvenga qualcosa di simile al mercato del car sharing. «Dove i produttori di vetture sono stati messi ai margini. Sono intervenuti nuovi players digitali che hanno disintermediato l’offerta e ne hanno tratto lucro». Siamo ancora in tempo per accelerare e dotarci di nuovi modelli di business «ma dobbiamo sbrigarci». Servono competenze che vengano dal mondo dell’information technology in modo che le macchine made in Italy abbiano più intelligenza a bordo. E ciò presuppone, per l’appunto, un cambiamento del Dna delle imprese chiamate ad aprirsi. «Un esempio positivo è quello delle aziende più evolute che investono in start up digitali, portandosi così in casa la nuova cultura dei dati e del servizio».

 

(Fonte: Corriere Economia)

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