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La (vera) forza dell’industria, lezioni dai casi Benetton e Fiat

Gli imprenditori italiani hanno molte qualità. Straordinarie. Il Paese si regge sulla loro capacità di produrre e, soprattutto, di esportare. Se altre attività economiche interne — che godono presso molti partiti, non solo di maggioranza, di eccessiva comprensione e protezione — avessero la stessa dinamicità dell’industria manifatturiera made in Italy — la nostra produttività, il livello dei salari, il benessere complessivo sarebbero assai superiori. Lo testimonia un passaggio delle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, quando sottolinea che grazie all’export siamo creditori netti per 155 miliardi.

 

I difetti

Non mancano però, come è normale che sia, i difetti. Uno, grave, è fortemente sottovalutato. Una scarsa se non nulla capacità autocritica. Gli insuccessi sono sempre colpa degli altri. La sindrome di sentirsi prigionieri di un Paese con troppi vincoli si traduce spesso in un alibi perfetto. Aziendale e personale. La stessa conformazione novecentesca delle organizzazioni imprenditoriali impedisce un’approfondita disamina degli errori commessi e delle occasioni perdute. Troppi, in alcuni casi, gli interessi divergenti riuniti sotto la stessa insegna sindacale: pubblico e privato, concessionari e non, monopolisti dell’energia ed energivori. Questa omertà di casta non favorisce lo sviluppo dell’imprenditorialità italiana. Non la spinge a distaccarsi da un rapporto privilegiato con la politica, di cui spesso è tributaria per concessioni, sussidi e protezioni dalla concorrenza. Non la costringe a ragionare pubblicamente sulle conseguenze di alcune scelte che, in diverse circostanze, hanno anteposto la dimensione finanziaria (il profitto a breve e la remunerazione degli azionisti) a quella puramente industriale (il lavoro, le competenze, l’innovazione). Né sulla tendenza, favorita dai multipli offerti dal private equity o dai club deal, a trasformarsi in rentier, magari soltanto per superare problemi di successione. 


 

Due casi

La cronaca ci offre due casi, molto diversi l’uno dall’altro, su cui riflettere. Luciano Benetton, in una clamorosa intervista al Corriere, ottenuta da Daniele Manca, si è detto tradito dal management che aveva scelto. È emerso un rosso a sorpresa di 230 milioni. Il cambio della guardia dell’amministratore delegato, da Massimo Renon a Claudio Sforza, è stato immediato. Comprendiamo lo stato d’animo dell’anziano patriarca, ma forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sul perché Benetton, nel secolo scorso un geniale modello innovativo in un settore considerato a torto maturo, sia stato prima imitato e poi superato da concorrenti come la spagnola Zara (Inditex) e la svedese H&M. Giulia Crivelli su Il Sole 24 Ore ha descritto perfettamente la parabola discendente (anche nell’immagine, Ponte Morandi a parte) del gruppo di Ponzano, che ha cominciato a non credere al proprio futuro nell’abbigliamento mentre i concorrenti conquistavano il mondo replicando un’innovazione tutta italiana. Inditex e Benetton collaborarono fino al 1999. Poi ognuno andò per la propria strada. I Benetton preferirono diversificare, nelle autostrade e negli aeroporti, dove di concorrenza ce n’è assai poca, e trasformarsi in una grande holding finanziaria. Amancio Ortega, padrone di Inditex, è diventato nel frattempo uno degli uomini più ricchi al mondo.

Addio automotive

Secondo esempio. L’Italia teme di perdere, quasi del tutto, la produzione automobilistica. Al di là degli impegni assunti da Stellantis (come la 500 ibrida a Mirafiori) — e ribaditi da John Elkann in una intervista ad Avvenire — il traguardo di un milione di vetture prodotte rimane lontano, se non irraggiungibile. Torino si sente educatamente orfana della Fiat, diventata Stellantis, ma il disimpegno dall’auto cominciò già ai tempi di Cesare Romiti, alfiere della diversificazione. Sergio Marchionne ha salvato finanziariamente la Fiat — specie con la straordinaria acquisizione di Chrysler — e fatto gli interessi della famiglia Agnelli e di Exor. Ma certo la principale preoccupazione di quella stagione non era quella di investire nel futuro italiano dell’auto, salvo il fortunato scorporo della Ferrari.
La storia è questa. Nell’ultimo ventennio, se guardiamo al campione di 2032 società italiane di Mediobanca, la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia è stata chiara. Il rapporto tra investimenti finanziari e industriali era pari al 30% nel 1992. A fine anni 90 raggiunse il 60%. Schizzò al 180% nel 2000; scese al 60% nel 2006. L’anno successivo, grazie a una stagione di forti acquisizioni, risalì al 138%. Ovvio che i picchi siano stati determinati — come spiega Angelo Salento in Finanziarizzazione delle imprese e shareholder value in Stato e mercato — da periodi di forte speculazione sui mercati finanziari, ma la tendenza è assolutamente chiara. «Quello che è accaduto in questi ultimi anni — nota Jody Vender, ex docente Bocconi e advisor di diverse società — è il progressivo esodo di diverse famiglie dall’industria. È avvenuto sostanzialmente in due modi. Da una parte quelle che sono uscite completamente e bene dal loro business come i Pesenti o i Bulgari. Dall’altra quelli che hanno fatto una scelta di diversificazione, come i Benetton o lo stesso gruppo Agnelli, trascurando però la loro attività originaria, le priorità sono diventate inevitabilmente altre». 

La terra dei family office

L’Italia è diventata, nel frattempo, la terra dei family office. Ovvero dell’imprenditoria per procura. Stay behind, un passo indietro. «Ma anche qui distinguerei — aggiunge Vender — tra chi si limita a scegliere i gestori dei propri capitali, ed è un soggetto puramente finanziario, cioè fa il rentier, e chi invece sceglie di rischiare di più investendo, attraverso il private equity, in aziende di cui però non ha la gestione. Sono rarissimi i casi di imprenditori che, dopo aver venduto le loro aziende, decidono di riprovarci. La seconda vita imprenditoriale, diffusa all’estero, è da noi una rarità».
Anche la maggior parte dei figli degli imprenditori che hanno venduto con successo difficilmente tende a cimentarsi in nuove attività imprenditoriali, magari acquistando un’azienda più piccola da sviluppare. Preferiscono, invece, diventare gestori dei capitali familiari, salvo qualche puntata nel finanziamento di startup promosse da altri. «Non possiamo però parlare — è l’opinione di Germano Maifreda, docente di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano — di una specificità italiana, anche se è vero che un capitalismo giovane e povero di capitali ha sempre sentito il fascino della finanza, apparentemente più attrattiva in termini di rendimenti, soprattutto quando si trattava di diversificare da settori considerati maturi o in declino. Ha influito, in questo processo, anche l’evoluzione della normativa societaria, l’apertura delle aziende ai capitali terzi, la quotazione in Borsa, l’arrivo dei fondi comuni d’investimento, l’ossessione dei risultati trimestrali. Una rivoluzione antropologica che forse noi abbiamo affrontato con un piglio troppo provinciale. Alcune famiglie hanno però fatto fruttare la loro esperienza in altri settori. Penso per esempio ai Drago e ai Boroli, che con le plusvalenze di Seat-Pagine Gialle hanno creato Lottomatica e oggi Igt, un gigante mondiale del betting, quotato al Nyse. L’imprenditore, in qualche caso, è uscito dalla fabbrica apportando però risorse e credibilità ad altri progetti, anche tramite il private equity».


 

Dalla finanza alla manifattura, di nuovo

Ed è forse per questa ragione che ha perso un po’ di quegli animal spirit innovativi così fecondi in altre stagioni? La vittoria del capitale sul lavoro - che idealmente ascriviamo alla marcia dei 40 mila della Fiat, storica sconfitta del sindacato - alla fine ha indebolito o deviato l’attitudine imprenditoriale? «Una tesi suggestiva — conclude Maifreda — di certo il costo del lavoro è stato compresso nell’Italia degli ultimi decenni. Del resto, la creazione di valore è stata generata sempre di più da ricerca e innovazione. Bisogna far sì che gli investimenti finanziari tornino a creare - come già nelle prime rivoluzioni industriali - le condizioni necessarie per sviluppare una nuova competitività delle imprese, anche manifatturiere». In sintesi, accettare le sfide non aggirarle.

 

(Fonte: Corriere Economia)

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